L'Unione Europea vorrebbe limitare, attraverso dei pesanti dazi doganali, l'importazione dei prodotti venduti dai tre portali menzionati nel titolo, colpevoli di alimentare un mercato malato, non solo perché provocherebbero una febbre da acquisto compulsivo da parte degli acquirenti europei, ma anche perché la maggior parte dei prodotti sarebbero realizzati da manovalanza sottopagata, spesso minorile, senza contare il fatto che questi prodotti starebbero mettendo in difficoltà i produttori locali.

Da un punto di vista utopistico morale il ragionamento non fa una grinza, in quanto tutte e tre questi tesi sono reali ed oggettive, ma se andiamo ad analizzare più nel dettaglio si tratta semplicemente di un pretestuoso cavillo etico per liberarsi di un fastidioso concorrente commerciale. Analizziamo queste  asserzioni singolarmente.

Sì, il basso costo dei prodotti porta molte persone ad acquistarne più del dovuto, causando uno spreco di materie prime e forza lavoro. Questa dinamica si chiama Fast Fashion e comporta un cambiamento repentino delle mode. Per questo motivo quello che acquisti oggi potrebbe non essere più alla moda tra uno o due mesi, e il capo acquistato - poiché pagato pochissimo - lo getti nella spazzatura senza problemi, così da riempire l'armadio con altri capi attualmente alla moda. Questa maniera d'agire è tipica dei personaggi famosi, i quali spesso vestono capi costosissimi per un breve periodo di tempo, per poi chiuderli per sempre nel proprio armadio. Poiché i personaggi che possono permettersi di fare ciò sono in numero limitato, rispetto a noi comuni mortali, nessuno si è mai preoccupato di questo spreco di materiale, ma ora che tutti possiamo farlo è scoppiato il caso. A questo punto ci troviamo di fronte ad un dilemma: la cosiddetta Fast Fashion deve essere appannaggio dei soli personaggi famosi e/o ricchi?

Sì, i prodotti poco costosi provenienti dalla Cina e stati limitrofi sono spesso prodotti da manodopera sottopagata, sfruttata e senza tutele, ma questo vale anche per i capi d'alta moda dei marchi più prestigiosi. Pensiamo ai recenti scandali che hanno colpito ArmaniPrada, Fendi e Dior. La maggior parte dei prodotti di queste ed altre famose case costano al marchio un centesimo di quanto verranno vendute. Lo stesso discorso può essere fatto per i marchi del settore IT. Qualche tempo fa avevamo scritto di come Apple stia trasferendo parte della propria produzione in India dalla Cina perché i lavoratori costano meno ed hanno meno diritti legali. Apple, come Huawei, come Oppo, sfruttano la manodopera in egual misura, ma Apple sa tenerlo nascosto alla propria clientela (o, forse, più probabilmente, alla propria clientela non frega nulla).

In ultimo, sì, Shein, AliExpress e Temu stanno mettendo in difficoltà i produttori e distributori locali, ma c'è un problema: i prodotti dai nostri distributori e "produttori" sono gli stessi prodotti venduti su Shein, AliExpress e Temu con ricarico ben maggiore. Noi, inteso come occidentali, ci limitiamo a metterci un'etichetta con il marchio CE e il logo di un brand diverso. A questo punto, perché dovremmo far ingrassare importatori occidentali se alla fine i lavoratori asiatici vengono comunque sfruttati? Ad esempio, questo peluche su AliExpress costa 2.28 Euro, su Amazon ne costa 8.99.

Alla luce di ciò, la decisione dell'Unione Europea di voler limitare le importazione in Europa di Shein, AliExpress e Temu non è nient'altro che un vile tentativo di proteggere qualche grosso nome occidentale, così che possa arricchirsi mangiando comunque sulle pelle dei poveri lavoratori - spesso minori - asiatici.