Nonostante fossi fisicamente distrutto, e l'invito di Samsung fosse giunto con appena una decade di preavviso, mi sono armato di tutta la buona volontà per seguire l'evento che, a mio avviso, avrebbe finalmente chiarito i propositi della casa coreana nei confronti della scuola italiana. Il viaggio andata-ritorno mi è costato la bellezza di 83 euro e una trasferta di 17 ore (per un'ora e mezza di conferenza), ma ne è valsa la pena.
Prima di cominciare a parlare delle tematiche che sono state trattate, vorrei psicologicamente calarvi nell'ambiente in cui l'incontro si è svolto. Appena giunto al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo Da Vinci, luogo in cui si sarebbe svolta la presentazione del progetto Smart School, subito ho notato, sedute su una panchina esterna l'entrata, un gruppetto di quattro bellissime (e fidanzate, avrei scoperto più tardi) ragazze in tailleur nero e tacchi alti. Il vecchio cliché della presentazione affollata di gnocche non si può evitare neppure quando si parla di scuola e bambini.
Accompagnato alla sala del convegno da Cristina Caricato, PR Samsung ed organizzatrice dell'evento, e da una hostess vestita di un abito bianco che lasciava ben poco all'immaginazione, giunsi al tavolino per l'accredito. Invece dei soliti opuscoli e depliant cartacei mi fu consegnata una penna USB nera, al che la mia reazione fu un soffocato: “Noooooooo!”. Cristina a quel punto mi chiese: “Ma non sei contento? Si risparmia carta, ed è tecnologica!”.
Sinceramente? No, non sono contento. Allo smartphone in mio possesso non avrei potuto collegarla, ed anche se avessi avuto un tablet mi sarebbe stato impossibile. Il notebook inoltre non l'avevo portato con me. Fortunatamente, prima di partire da casa, mi sono premunito di carta e penna, equipaggiamento minimo indispensabile per ogni buon giornalista. Difficilmente, infatti, avrei potuto prendere abbastanza appunti su qualche mmq di plastica nera.
Tavoletta d'argilla (2500 a.C.): portabile, batteria illimitata, touchscreen, pennino, water resistant, cover rigida e resistente agli urti. Unici due difetti, mancanza di connessione Internet e di Adobe Flash Player (ma questo'ultimo può essere considerato tale?).
Abbandonato il tavolino, ed entrato nella sala che avrebbe ospitato la conferenza, mi è tornato alla mente, del tutto involontariamente, il mitico Bluto di Animal House. Gli scuri alle finestre erano chiusi, una cinquantina di sedie di plastica trasparente e sinuose ben allineate erano disposte proprio davanti l'ingresso, di fronte al palco dotato di megaschermo, una musica di sottofondo tipica dei locali notturni (probabilmente lounge) creava atmosfera, luci soffuse facevano nascere alcuni giochi di ombre, qualche cameriere si affacciava dal buffet e le quattro ragazze che poco prima avevo visto all'esterno ora accompagnavano i nuovi arrivati ai propri posti (molti riservati). Sfregandomi le mani dissi tra me e me: “Quando comincia lo spogliarello!?”.
Sfortunatamente lo spettacolo che avrei osservato sarebbe stato meno interessante rispetto ad un bel burlesque.
Prima di cominciare a descrivere la visione di Samsung sull'argomento mi preme far presente al lettore che la Digitalizzazione della scuola, per il momento (fortunatamente, aggiungerei), è solo un'idea, un'idea tra le tante che non sono andate a buon fine. L'ultima, forse la più chiaccherata, fu all'inizio degli anni 2000 quella di utilizzare Second Life nelle Università e, perché no?, nelle scuole superiori.
Lasciando a Wikipedia (Eng, Ita) l'onere di spiegare cosa è Second Life, vorrei soffermarmi sulle speranze che ha acceso, al momento della propria comparsa, negli educatori e pedagogisti, nei professori ed insegnanti, negli analisti di mercato (quelli, stranamente, c'entrano sempre) e nei programmatori che pensarono di sfruttare questo rivoluzionario (?!) MMO per scopi didattici. L'estrema libertà di azione e la possibilità di interagire con chiunque solleticarono la mente di molti. Giovanni Biondi, lo stesso che adesso idolatra l'utilizzo dei Tablet a scuola, fu un fervente sostenitore di Second Life, e lo possiamo leggere nel suo libro “La scuola dopo le nuove tecnologie” (2007): “Second Life è una realtà virtuale che mette a disposizione “spazi” disegnati e progettati tenendo conto dei così detti “diorama”, utilizzati nei principali ambienti di simulazione. Mondi aperti alla Rete che consentono di accedere alle risorse informative del Web, ma che ne sono distanti per struttura. In questo caso, se il riferimento alle simulazioni già ampiamente utilizzato nella formazione dei piloti come degli astronauti o per scopi militari, può essere appropriato per definire l'ambiente nel quale si opera, la dimensione sociale dell'interazione offre certamente qualche cosa di più e di diverso. Ci troviamo in ambienti sociali dove, quindi, è possibile l'ambiente collaborativo, dove le attività sono al centro e dove è determinante il soggetto che appende rispetto all'oggetto. Un mondo immersivo, un mondo “sintetico” basato sul learning by doing, che al di là dell'esperienza di Second Life, che comunque nasce con altri obiettivi, dimostra come l'utilizzo delle ITC richieda, per poterne raccogliere la sfida e sfruttare le reali potenzialità, di andare oltre la scrittura, oltre il testo che inevitabilmente poi è destinato a tornare sulla carta, e intraprendere strade nuove.
Non è un caso che questi siano gli ambienti più familiari alla generazione dei digital native, che intrisi del loro mondo, totalmente bilingui, si scontrano col nero dell'ardesia, con il modello trasmissivo, espositivo della scuola” (La scuola dopo le nuove tecnologie, Giovanni Biondi, Apogeo, Milano, 2007, Pag. 65).
Anche altre personalità, come Rebecca Nelson, dell'Università di Harvard, (E' un modo per creare un senso di comunità fra gli studenti virtuali. Per farti sentire vicino il tuo compagno di banco, anche se magari si collega dalla Corea), come Charles Nesson, sempre dell'Università di Harvard (Gli allievi hanno mostrato una grande voglia di partecipare e mettersi in gioco, ma anche di aiutare, suggerendo nuovi modi per migliorare l'esperienza. C'è ancora strada da fare), o Richard Walton (La maggior parte delle persone che organizza corsi di lingue su Second Life pensa all'e-learning come qualcosa che non richieda partecipazione da parte dello studente. Uno studio passivo, fatto di materiale scaricato e test da compilare on-line. Ma in Second-life l'interazione umana avviene in tempo reale, permettendo di fare esperienza in prima persona. Che è il modo migliore, è noto, per imparare una lingua) tessero le lodi di questo mondo virtuale.
Second Life fu veramente una rivoluzione? No, per chi frequentava i forum di discussione tradizionali o giocava già online fu considerato una emerita cavolata fin dal principio (anche se ben altri epiteti sarebbero da utilizzare). Fu, come lo è oggi Facebook, un imbonitore di novizi del Web. Coloro che non hanno mai sfruttato Internet in maniera costruttiva vedono in questi “strumenti” (ed è un complimento chiamarli così) una nuova forma di comunicazione altamente avanzata, sfruttabile anche in ambito educativo. Eppure, ed i nostri affezionati lettori lo sanno, ancora oggi nulla ha potuto sostituire i vecchi, cari ed utilissimi Forum di discussione. Luoghi magari semplici e spogli, ma molto razionali e capaci di offrire tutto quello che serve per discutere: un ambiente razionale (categorie, thread, nidificazione dei messaggi), personalizzabile (firme, avatar) e capace di accogliere sia discussioni futili (come quelle che si vedono su Twitter o Facebook) sia discussioni molto articolate. Strumenti molto poco attrattivi dal punto di vista del marketing (phpBB è gratuito, vBulletin costa una ventina di dollari, inoltre non richiedono servizi aggiuntivi) per le grandi multinazionali, ma soprattutto anonimi per i così detti esperti che, seppur strapieni di lauree e master, sono abbagliati, al pari del semplice cittadino con la terza media, dalle luci sbrilluccicose delle campagne pubblicitarie.
Second Life, quasi del tutto abbandonato dopo un iniziale forte interessamento (vedesi Università di Torino), è ora alla deriva, finito nel dimenticatoio internettiano. Oggi, quegli stessi esperti che si lanciavano in sperticate lodi nei suoi confronti, decantano le meraviglie dei tablet e della digitalizzazione della scuola, come se Second Life non fosse mai esistito e non lo avessero mai appoggiato. Questo mi ha fatto tornare alla mente quanto affermava un mio amico ai tempi dell'Università a Bologna: “Io seguo la legge dei grandi numeri di Bernoulli: chiedo a tutte le ragazze che trovo carine di uscire per un appuntamento. Prima o poi qualcuna accetterà”. Oggi siamo nella medesima situazione con la scuola. Ogni 3 o 4 anni si appoggia una nuova teoria didattica. Prima o poi questi esperti ci azzeccheranno.
Riportare quello che è stato detto al momento mi è molto difficile, ma non mancherò di farlo con un update, appena Samsung mi manderà il video integrale della conferenza (non voglio riportare frase incomplete o errate). Per il momento, quindi, mi limiterò a riportare il comunicato stampa ufficiale Samsung. D'altra parte quello che ho da dire di importante sarà scritto nei prossimi paragrafi.
SMART FUTURE:
SE LA TECNOLOGIA CAMBIA LA SCUOLA (E LA VITA)
Integrando know how e tecnologia, Samsung svilupperà percorsi formativi per gli insegnanti e porterà soluzioni tecnologiche in circa 300 scuole italiane entro il 2015
Milano, 20 Giugno 2013 – Samsung presenta Smart Future, un progetto internazionale, approdato adesso anche in Italia, nato per favorire la digitalizzazione dell’istruzione a partire da un processo di formazione indirizzato in prima battuta agli insegnanti e, di conseguenza, agli studenti e alle loro famiglie. Articolato in tre fasi – costituzione di un Advisory Board formato da docenti e professionisti impegnati in ambito educativo, un Roadshow che toccherà le principali città italiane a partire da settembre e un Osservatorio nazionale sui Media Digitali a scuola realizzato insieme all’Università Cattolica di Milano – Smart Future, a partire dal prossimo anno scolastico, realizzerà classi digitali in circa 300 scuole italiane nel triennio 2013 – 2015 – le prime 50 entro la fine dell’anno - dotandole di tecnologie digitali interattive e corsi di formazione rivolti ai docenti. “Ci stiamo impegnando sempre di più in iniziative per contribuire allo sviluppo sociale ed economico dei territori nei quali siamo presenti. Smart Future rientra all’interno di questa strategia, quella di creare valore attraverso l’innovazione per migliorare la società e la qualità di vita degli individui” - afferma Carlo Barlocco, Senior Vice President Samsung Electronics Italia.
L’Ocse ha recentemente evidenziato nel suo rapporto Review of the Italian Strategy for Digital Schools come l’Italia debba investire più risorse – economiche ma anche strutturali e culturali - per diffondere le tecnologie digitali a scuola e colmare il gap con altri Paesi europei, come ad esempio la Gran Bretagna: “Le tecnologie digitali non servono a modificare deterministicamente gli apprendimenti degli studenti – sostiene Pier Cesare Rivoltella, Professore ordinario di Didattica e Tecnologie dell'istruzione presso l’Università Cattolica di Milano – “Esse, se inserite nella scuola con un corretto processo di guidance, servono a destabilizzare le vecchie pratiche didattiche favorendo l’innovazione e la riduzione del gap di cultura tra scuola e sistema sociale; in questo modo, una scuola più vicina al mondo degli studenti e una didattica più efficace ed aggiornata finiscono per creare le migliori condizioni anche per degli apprendimenti maggiormente significativi”.
Smart Future mira a evidenziare i benefici della tecnologia in ambito educativo. L’ambizione è contribuire ad avere una scuola che stimoli la produzione e la fruizione di contenuti digitali e che permetta di ripensare le modalità di apprendimento allargandone gli orizzonti. “Obiettivo finale” – sostiene Luca Danovaro, Corporate Marketing Director Samsung Electronics Italia – “è offrire agli studenti un’istruzione evoluta e allineata agli standard di altri Paesi per cogliere nuove opportunità di lavoro, alla luce del contesto sempre più competitivo nel quale ci si trova a operare”.
I relatori della giornata. Da sinistra verso destra: Maria Latella (moderatrice/presentatrice), Carlo Barlocco, Pier Cesare Rivoltella, Luca Danovaro e Antonio Bosio
Advisory Board
Al fine di rendere Smart Future una iniziativa autorevole e indipendente, Samsung si avvarrà del contributo di esperti provenienti da diversi ambiti attinenti al mondo dell’educazione e della scuola attraverso la creazione di un Advisory Board che include Antonio Affinita, presidente del MOIGE, Dianora Bardi, fondatore e vice presidente del centro studi Impara Digitale, Maria Latella, giornalista, Pier Paolo Limone, Professore Associato di Pedagogia dei Media presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Foggia, Stefano Ribaldi, vice direttore di Rai Educational, Pier Cesare Rivoltella, Professore Ordinario di Didattica e Tecnologia dell’istruzione e del’apprendimento presso l’Università Cattolica di Milano e Alfonso Rubinacci, direttore di Tuttoscuola. Il ruolo dell’Advisory Board è quello di essere garante della rigorosità del progetto e di individuare strategie e attività coerenti con lo spirito di Smart Future. Attraverso incontri bimestrali, l’Advisory Board valuterà le scuole dove attuare l’inserimento di dispositivi digitali e, soprattutto, la tipologia di supporto da offrire agli insegnanti accompagnandoli dalla fase di training allo svolgimento di lezioni digitali nelle classi. Grande attenzione sarà dedicata agli studenti per coinvolgerli nei programmi scolastici che usano un linguaggio digitale, e ai loro genitori, rassicurandoli sulla sicurezza dell’ambiente internet a scuola.
Il Roadshow
Il dialogo con il territorio è un altro aspetto fondamentale del progetto Smart Future e si attua attraverso un Roadshow che partirà il prossimo settembre e coinvolgerà 7 regioni entro la fine dell’anno, con l’obiettivo di coinvolgerle tutte entro il 2015. Grazie a sessioni dimostrative, incontri e dibattiti con studenti, insegnanti, genitori ed educatori racconterà con un linguaggio diretto ed efficace come può cambiare il modo di apprendere. Imparare digitale significa creare e accedere a nuovi contenuti, ripensando le fonti (e il web ne offre di illimitate) e sviluppando nuove abilità che possano garantire un futuro professionale più ricco e stimolante di quello attuale.
La Ricerca
Inoltre, presso il CREMIT (Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Teconolgia) dell’università Cattolica sarà costituito un Osservatorio sui Media Digitali a Scuola, con la direzione del Prof. Pier Cesare Rivoltella e il coordinamento scientifico del prof. Pierpaolo Limone. L’Osservatorio si occuperà di svolgere un’indagine sul momento della scuola italiana alle prese con la digitalizzazione e di curare il monitoraggio di tutto il processo di dotazione tecnologica, formazione degli insegnanti e intervento nelle classi. La ricerca farà ricorso a una metodologia che prevede il ricorso a strumenti sia quantitativi (questionari) sia qualitativi (osservazione, interviste, focus group).
Dopo la pubblicità di circa un'ora che mi sono sorbito (ed io che mi lamento degli spot di qualche secondo su Youtube …) si è finalmente giunti al fatidico momento delle domande, e non mi sono certamente tirato indietro, ma prima di continuare con la presentazione di Samsung mi sembra essenziale capire come la casa coreana è giunta a formulare tale proposta per le scuole italiane. Come ho già avuto modo di affermare, Samsung (come Dell, Hitachi e le altre impegnate in questa opera di digitalizzazione) è prima di tutto una società che vuole fare utili, che vuole vendere, e il comparto scolastico è un bacino d'utenza praticamente illimitato, considerando l'usura dei mezzi e il grande ricambio di utenti. La Scuola è un investimento e deve andare a buon fine. Bisogna necessariamente scegliere gli uomini giusti su cui fare affidamento, così da avere delle buone chance per affermarsi. Cerchiamo allora di capire di chi si fida Samsung.
Partirei, anche se non era presente a Milano, da Pierpaolo Limone, Professore Associato di Pedagogia dei Media presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Foggia. Prima di scrivere questo articolo, da buon giornalista, mi sono voluto documentare su quanto queste persone hanno scritto, con chi hanno collaborato e via di questo passo. Se adesso può sembrarvi eccessivamente zelante, alla fine dell'articolo penso comprenderete bene il mio modus operandi.
Tornando a noi, comincerei parlando di Pierpaolo Limone in quanto nel suo libro L'accoglienza del bambino nella città globale (2007) ci presenta un'idea di preadolescente molto vicina a come vorrebbe che fosse universalmente visto dalle multinazionali: un piccolo, autonomo consumatore.
Qui lo stralcio:
“Sin dai primi anni di vita i bambini stabiliscono una relazione speciale con le tecnologie della comunicazione, attraverso prodotti che sempre più presto investono l'attenzione dei piccoli. Si pensi, ad esempio, ai Teletubbies ed al loro fitto merchandising rivolto ai bambini fino ai tre anni, oppure al vasto mercato delle collezioni di abbigliamento che adotta strategie di vendita ugualmente pervasive per ogni fascia di età.
Bambini e preadolescenti vivono esperienze sociali gratificanti nella loro relazione con i media e la cultura di massa che non li isola affatto piuttosto li socializza in un universo di pari che co-consumano gli stessi prodotti ed apprendono gli stessi linguaggi. Molto presto nella vita infantile si struttura una relazione esclusiva tra bambini e media dove i genitori ed altri adulti significativi sono lasciati fuori, quasi a postulare una gestione diretta -responsabile- del prodotto ludico o del messaggio mediale.
La spinta che viene dal mondo del consumo orienterebbe la pedagogia dell'infanzia a lavorare proprio in questi interstizi conoscitivi, nell'interfaccia fra bambino e media, senza alcuna altra sollecitazione ed alcun altro obiettivo. Può bastare?
Sicuramente l'esperienza sociale che caratterizza la relazione tra bambini e media, i modelli di apprendimento impliciti nella relazione con i video giochi o con la televisione multicanale o anche la possibilità didattiche dei nuovi media sono di grande interesse per le scienze dell'educazione, ma forse è necessario sviluppare un nuovo approccio.
Nuovo sia per le modalità di studio perché la cultura dei bambini, anzi le stratificate e interconnesse culture dei bambini, si possono studiare solo attraverso un approccio interdisciplinare, aperto al dialogo con le migliori esperienze internazionali ed attraverso metodologie di ricerca empirica e sperimentale appropriate; e nuovo anche e principalmente per l'orizzonte di riferimento che non può che recuperare l'idea di bambino-in-situazione, l'idea di un bambino persona che vive all'interno del piccolo gruppo sociale (la famiglia) la sua originalissima avventura umana. Se isoliamo il bambino e lo guardiamo come soggetto in dialogo con i media, perdiamo una parte della sua identità come persona. Dobbiamo invece considerare il suo universo personale e al suo interno collocare i media, come ospiti di una esperienza che deve trovare la sua sorgente di significazione nella persona e soltanto in essa.
Non si tratta di dire sì o no ai media. Sarebbe una grossolana banalizzazione e forse persino una mistificazione. Si tratta invece di capire se pensiamo ad un bambino che punta all'autonomia e quindi all'autodirezione o se invece pensiamo ad un bambino eterodiretto e quindi escluso dai processi di crescita che lo porterebbero a celebrare il senso della libertà.
Il mondo è popolato da città sempre più simili e i bambini si assomigliano sempre di più perché aspirano a fare parte di una indivisa e globale sfera culturale infantile. Tutti i bambini che vivono nella metà ricca del mondo conoscono i Pokemon, tutti giocano con il merchandising de degli Incredibili, tutti sanno chi è Harry Potter”. (L'accoglienza del bambino nella città globale, Pierpaolo Limone, Armando Editore, 2007, Roma, Pagg. 197-199)
Come si avrà inteso, Limone considera il bambino, o il preadolescente, già in grado di capire cosa effettivamente può farlo crescere culturalmente. Il fatto che i Teletubbies, i Pokemon o Harry Potter siano così famosi presso il pubblico di più giovane età non è necessariamente imputabile alla noncuranza dei genitori o all'elevata esposizione a media pubblicitari: il bambino sceglie di propria iniziativa, perché fa parte del mondo occidentale. Allo stesso modo potremmo affermare che i giochi su Facebook (Farmville, Mafia Wars, ecc) sono giocati da persone “sempre più simili e gli utenti di Facebook si assomigliano sempre di più perché aspirano a fare parte di una indivisa e globale sfera culturale” (In grassetto le mie modifiche). Può reggere quest'ultima affermazione? Direi di no, ed il motivo lo conoscete anche voi, lettori, senza che stia a scriverlo. Inoltre, scusate la volgarità, ma neanche sotto tortura vorrei far parte di quella sfera culturale!
In poche parole, quello che Limone offre a Samsung è una visione pedagogica che strizza l'occhio al mercato consumistico, e quindi al marketing. Quando ad Ernesto D'Alessandro ho chiesto telefonicamente cosa ne pensasse del successo che stanno riscuotendo i prodotti Apple tra gli insegnanti, nonostante abbiano un supporto alla didattica inesistente (ad esempio gli insegnanti di DIDATEC ed Indire utilizzano quasi esclusivamente iPad); mi è stato risposto che se Apple ha successo è perché se lo merita, perché è riuscita a creare un marchio forte facile da riconoscere, e Samsung punta al medesimo risultato rafforzando il brand Galaxy. Quando Limone afferma che i bambini sono consapevoli di quello che scelgono (Teletubbies, Pokemon, ecc) implicitamente rende i bambini “terreno di caccia” per le multinazionali (o comunque per chi vuole farne dei piccoli consumatori).
Samsung, equipaggiando le scuole con i propri terminali, vuole fare il salto di qualità. Abituando gli scolari ai propri prodotti, la casa coreana spera di poter creare uno zoccolo duro d'utenza anche al di fuori delle mura scolastiche, al pari di quello che fece Microsoft con l'informatizzazione della scuola italiana tra la fine degli anni '90 e l'inizio del primo decennio del 2000. Se da un lato andò bene, per Microsoft, per le istituzioni italiane fu un vero calvario. Ancora oggi paghiamo le conseguenze di un piano di informatizzazione mal definito (competenze minime da parte di studenti ed insegnanti, ECDL inutile), mentre Windows e Office imperano sia nelle case sia negli uffici pubblici. Se il bambino si diverte a scuola con i tablet della Samsung, beh, genitori, dovreste comprarne uno anche per un utilizzo domestico!
A supportare l'idea pedagogica di Limone provvede Pier Cesare Rivoltella, Professore Ordinario di Didattica e Tecnologia dell’istruzione e dell’apprendimento presso l’Università Cattolica di Milano, il quale prende ad esempio per quanto riguarda la digitalizzazione la Gran Bretagna. Gran Bretagna che recentemente sta avendo non pochi ripensamenti a riguardo, come abbiamo avuto modo di scrivere nello scorso articolo, soprattutto nell'uso di Facebook da parte degli insegnanti e nella scelta del materiale (tablet, software, ecc). A tal proposito il Prof. Rivoltella scrive sul proprio blog: “Quale tipo di sguardo predispongono internet e il social network? Qual è il visibile di Facebook? Giocando sui termini, mi verrebbe da dire che in Facebook "si vede quel che ci viene fatto vedere". In qualche modo questo significa tornare a recuperare lo sguardo del cinema classico, ma con una differenza sostanziale. Quello sguardo portava iscritto un progetto autoriale forte, eticamente consapevole. Nel cinema classico, come Bazin faceva notare, i due tabù della rappresentazione (l'amore e la morte) non vengono mai trasgrediti: si vede quel che si vede, ma nei limiti che al visibile impone il Soggetto Enunciatore. Nell'infosfera, nel social network, al visibile non vengono imposti limiti. Il problema passa al lettore, all'utente: è alla sua responsabilità che sta di ridefinire eticamente quei limiti che il visibile di suo non possiede più. Ecco perché più volte mi è capitato di ribadire che oggi la vera frontiera della media education non è quella del senso critico, ma della responsabilità. Dalla provincia ideologica si deve passare senza esitazioni alla provincia etica”.
A mio parere il Prof. Rivoltella vede nella didattica multimediale quell'ancora di salvezza che non è. La media education (ME) non può educare alla responsabilità non più della didattica tradizionale (anzi, probabilmente meno). Tutti comprendono che quello che si posta su internet ormai è proprietà di internet, quindi di tutti, eppure non ci si fa problema a caricare sui propri profili Facebook di tutto e di più, calpestando la propria privacy. Senza una solida base tradizionale, gli strumenti didattici multimediali sono del tutto inutili. V'è però effettivamente un vantaggio derivante dai Social Network, per chi vuole conoscere di più su una persona: l'accesso, appunto, alle informazioni personali. Ad esempio ho scoperto che Rivoltella è un fervente cattolico, in quanto posta quasi settimanalmente almeno una citazione di Papa Francesco, che è sposato ed ha un figlio, e che attraverso i profili collegati posso sapere chi sono e cosa fanno sia la moglie sia il figlio. Il lettore di questo articolo, non solo potrà farsi un'idea più precisa del Prof. Rivoltella attraverso i suoi libri e i suoi post sul blog, ma anche attraverso l'osservazione della sua vita sociale, e dei suoi parenti, attraverso i Social Network.
Anche per il MOIGE, il tanto vituperato Movimento Italiano Genitori, associazione ultra cattolica e conservatrice, i Social Network possono essere un buon veicolo di controllo. Il MOIGE nell'arco degli anni si è fatta conoscere per l'aver fatto spostare, od anche cancellare, dai palinsesti programmi televisivi giudicati non adatti per determinate fasce orarie. Nella pratica, si è sostituita ai genitori, scegliendo per loro cosa i bambini dovessero guardare. L'uso dei Social Network, quindi, può agevolare l'attività di controllo dei genitori, e questi sono ben contenti: è più facile controllare e proibire, piuttosto che educare. Se prima leggere il diario segreto della propria figlia era considerato eticamente sbagliato, ora è del tutto legittimo osservarne il profilo online: è la stessa figlia a rendere palesi al mondo i propri pensieri e le proprie azioni, senza che voglia nasconderli.
Il coinvolgimento del MOIGE nel programma di Samsung si lega a doppio filo alla passione del Prof. Rivoltella, fervente cattolico, come precedentemente sottolineato, per Len Masterman, fautore della già citata media education (ha curato l'edizione italiana di “A scuola di media. Educazione, media e democrazia nell'Europa degli anni '90”, di Len Masterman). Avere il supporto della Chiesa Cattolica, in Italia, è il primo passo per il successo.
Caratteristica peculiare della ME, teoricamente, è l'utilizzare le tecnologie non come strumento ma come mezzo per fare educazione: i bambini non imparano dal tablet o dal computer (come se fossero la stessa cosa ...), ma attraverso questi, attraverso il “fare” attivo e non passivo. Semplificando, utilizzando i media tecnologici come veicolo dei propri pensieri, automaticamente si migliorano le skill per padroneggiarli ed al contempo si accrescono le proprie conoscenze attraverso la condivisione. Buttando lì una battuta, sì è trasformato 4chan in una teoria pedagogica.
Stranamente quando si parla di Media Education, i terminali utilizzati sono quasi sempre Apple ...
Eppure la passione per l'utilizzo dei più recenti mezzi digitali sta subendo qualche contraccolpo anche negli Stati Uniti, patria di queste teorie d'insegnamento. Negli ultimi anni negli USA si è acceso un dibattito relativamente alle scuole di natura pratica o, per esemplificare, le nostre vecchie scuole di avviamento professionale, ormai scomparse da tempo sul nostro territorio. Negli USA, infatti, v'è la mania di dover forzatamente conseguire una laurea per accontentare il proprio Ego e quello, soprattutto, dei genitori: se non si è avvocati, manager o ingegneri non si è nessuno. Al diavolo i lavori manuali come carpentiere, muratore, operaio, quelli sono lavori per morti di fame ed immigrati. Negli ultimi anni, però, questo modo di pensare ha cominciato a scricchiolare, in quanto la ricchezza non si produce solo stando seduti su una poltrona. I critici dell'attuale sistema educativo stanno guardando alla Germania ed al suo sistema Vocazionale: chi non è attirato dallo studio di materie teoriche o da lavori d'ufficio, può intraprendere degli studi mirati ad apprendere competenze pratiche, di tutti i tipi, senza che vengano considerati lavoratori di serie B. Secondo la mentalità tedesca, se è vero che senza un Ingegnere non si può progettare una diga, è altrettanto vero che senza Operai specializzati quella diga non potrà essere costruita ottimamente. Non è un caso che gli Ingegneri della U.S. Navy, l'ultimo anno di studi, vadano in Germania per fare pratica sul campo, poiché negli USA non esistono scuole del genere, equipaggiate con tutti gli strumenti del caso. E questo avviene dagli anni '60: gli Ingegneri della più grande flotta militare al mondo, vanno a fare pratica attiva presso una nazione che possiede una delle più piccole marine militari tra i paesi della NATO! Quando la giornalista Maria Latella, durante la conferenza, ha espresso meraviglia per il decadimento della scuola italiana negli ultimi anni, bisogna guardare a questo: si è tentato di copiare acriticamente il sistema educativo anglosassone, senza essere né la Gran Bretagna, né gli Stati Uniti d'America. Gli istituti tecnici sono stati denigrati, le scuole di avviamento professionale abolite, i corsi di laurea sono stati annacquati per attirare più studenti. Avrebbe mai potuto funzionare un trapianto del genere? Eppure è quello che si sta tentando di fare anche con questa riforma scolastica.
Proseguendo in questa carrellata, veniamo ad Alfonso Rubinacci, il quale ha curato un Dossier intitolato “Scuola digitale ed educazione”. In questo approfondimento compare un'intervista alla Prof.ssa Rita Coccia, la quale afferma: “I nostri studenti acquisiscono nuove conoscenze, sviluppano abilità e competenze non solo nel ristretto contesto scolastico, ma in contesti molto più ampi e globali. Quello che gli esperti individua no infatti come ‘apprendimento formale’ rappresenta ormai solo una parte dello sviluppo cognitivo dell’individuo. Le tecnologie consentono, attraverso l’ambiente virtuale della rete e l’interconnessione, di apprendere in modo organizzato, ma non formale e spesso l’apprendimento stesso avviene tra pari, in una grande community dove tutti i soggetti contribuiscono ad accrescere le competenze comuni. Quando la scuola avrà piena consapevolezza di questo cambia - mento, peraltro non più reversibile, il divario tra docenti-studenti comincerà ad assottigliarsi”. Quello che sfugge a molti di questi fautori della parificazione totale dei ruoli attraverso la digitalizzazione (mi ricordano tanto i Livellatori durante la rivoluzione di Cromwell), è che Internet non è un'istituzione democratica, se si è frequentato anche solo limitatamente un forum o un chan (mai rivenuto un Ban ritenuto ingiusto?). Secondariamente, è vero, c'è lo scambio di competenze, ma questo scambio è infinitamente minore rispetto alla semplice condivisione di informazioni ed opinioni. Possiamo osservarlo nei forum di informatica: le vere novità sono minime, in quanto spesso ci si limita o a scambiarsi informazioni già disponibili (risoluzioni di problemi, consigli di acquisti, ecc) o esperienze vissute (come mi trovo con la nuova scheda video et similia). Vi è una condivisione di esperienze, più che di conoscenze vere e proprie, ma di questo parleremo nel prossimo paragrafo.
Se si pensa agli scambi di competenze nelle community, si è più vicini ad un regime totalitario che ad uno stato democratico. Pensiamo alle distribuzioni GNU/Linux, la realtà più vicina a quanto vogliono realizzare questi studiosi. E' quanto di meno democratico possa esistere, sebbene ci sia una community molto vivace dietro che faccia sembrare il tutto la patria della libertà definitiva. Torvalds è il padre padrone del Kernel, e chi mantiene le diverse distro opera con il medesimo pugno di ferro, decidendo cosa implementare e cosa no. Per mantenere community tanto vaste servono quelli che nella didattica potremmo definire i Maestri, gli Insegnanti. Tecnicamente non cambia nulla. Semplicemente, i Torvalds, non hanno un nome ufficiale che ne identifichi il ruolo. La stessa Wikipedia is not a democracy!
Tale totalitarismo si può osservare nella funzione pubblicizzata da Samsung che permette ai docenti di scegliere quali contenuti far vedere agli studenti sui tablet, che permette di scegliere se questi possono accedere ad internet o meno, e via di questo passo (MOIGE docet). Dov'è la libertà tanto decantata teoricamente, se nella pratica gli studenti sono solamente liberi di consultare quanto insegnanti e professori decidono che sia consultabile? A questo punto, non è forse più libera una classica biblioteca composta di libri cartacei?
Sempre parlando delle community online, va notato come le più generaliste (Yahoo Answers, Facebook, ecc), e quindi quelle che richiedono meno competenze, siano effettivamente quelle dove gli utenti sono più eguali. Dove si parla del più e del meno, di esperienze personali, di fatti soggettivi e non oggettivi, vi è una quasi totale parificazione tra l'utenza, in quanto ognuno porta una propria verità, la quale non può essere definita a priori, o anche a posteriori, errata o meno.
Dove invece la discussione si fa più tecnica, dove vi è un effettivo scambio di opinioni e di tesi su argomenti più oggettivi (Forum di Storia, Forum di Informatica, ecc), si vengono a creare delle gerarchie piramidali, senza che ve ne sia una effettiva coscienza da parte dell'utenza. In questi forum, se si afferma qualcosa, bisogna portare spesso a sostegno le fonti (non è rara la frase, nei forum anglosassoni, “Source, or get the fuck out!”). Se si afferma qualcosa senza portare delle fonti a sostegno della propria tesi si viene invitati a farlo, se si reiterano tali interventi senza supporti autorevoli si viene denigrati ed emarginati. Più la proprie tesi sono supportate da fonti o fatti, e più le proprie tesi si rivelano realistiche, in automatico la community vede in quell'utente una persona maggiormente affidabile e degna di essere ascoltata. Questo utente, quindi, anche senza avere un qualche potere reale (non è moderatore o amministratore), ma grazie al proprio carisma, può determinare addirittura alcuni eventi (ban di uno o più utenti, chiusura di discussioni, ecc). Non è raro, inoltre, che questi utenti, appoggiati dalla community, possano assurgere a diversi ruoli di responsabilità all'interno della community stessa, senza che gli venga chiesto di mostrare alcun titolo di studio.
Senza rendersene conto, quindi, i pedagogisti che vedono in Internet un'ancora di salvezza, dovrebbero invece esserne spaventati. In molti sono contrari all'abolizione dei titoli di studio, eppure su Internet non si è mai avuta la mania dei titoli di studio. Tu sei quello che scrivi e, con l'avvento dei Social Network, sei anche quello che mostri. Una foto, ad esempio, può rovinarti definitivamente la vita (I chan esistono per questo, no? Eheh).
Su Internet spesso si scambiano le opinioni per competenze
Quando si scrive qualcosa su un forum, e si afferma di essere nel giusto perché si è laureati in tale materia, è l'inizio della fine per la propria credibilità. I titoli di studio su Internet, nelle community, o nei chan non hanno valore. In linea teorica un Professore di Ingegneria potrebbe essere denigrato da un'intera community di informatica (spesso composta da ragazzi di scuole medie o superiori) per affermazioni del tutto campate per aria, e questo l'ho visto accadere personalmente diverse volte.
Le community online, soprattutto se vaste, in conclusione, premiano chi ha effettivamente le competenze. Chi non le ha o non è in grado di metterle in mostra non potrà mai essere una guida. Personalmente ho avuto un'esperienza simile nel 2005 presso l'Università di Bologna. Il progetto era gestito dalla Virtual University of Finland ed aveva quale tema “Identities in European History”. Lo scopo del corso/progetto era, come scritto nel certificato rilasciato alla conclusione del corso, di “esaminare come le idee di Identità sono state create, sviluppate e modificate nella storia Europea. Il problema è stato studiato da diversi punti di vista e in diversi periodi storici. Il centro dell'attenzione è stato posto sui temi quale il genere, la lingua, la politica e la religione. Gli studenti hanno appreso l'uso dei concetti chiave relativi all'identità Europea in un contesto storico. Gli studenti hanno inoltre acquisito esperienza nell'uso degli strumenti pedagogici offerti dalle piattaforme e-learning. Il corso è stato svolto sia in classi locali che internazionali, usando internet”.
Alla conclusione del corso (che ha coinvolto una dozzina di università europee e più di cento studenti) il lavoro era stato svolto, con la pubblicazione nel portale del progetto degli elaborati finali, ma per la quasi totalità dello stesso è mancato il dibattito. Era stato creato un forum dove si sarebbe potuto discutere in modo fruttuoso sugli argomenti, ma le discussioni sono state sempre povere di spunti, appunto perché mancava quella figura di spicco di cui ho parlato. I Professori, coloro che avrebbero dovuto dare lo slancio iniziale, mancarono completamente nell'intento. Il loro peso sociale (status di Professori Universitari, Lauree e Master, pubblicazione di libri ed articoli, ecc) non aveva alcun peso all'interno del forum: erano visti come dei semplici utenti. Erano un semplice Nick Name, e se questo Nick Name non portava spunti interessanti alla discussione veniva ignorato. Ogni studente, quindi, pensò a portare a casa il proprio compitino, senza stancarsi troppo, per avere il riconoscimento dei crediti. Parlando con altri ragazzi (belgi, inglesi, olandesi, tedeschi, finlandesi, svedesi, francesi), sia a Bologna sia attraverso il forum, era opinione praticamente comune il considerare il corso abbastanza asettico e privo di stimoli. Non ci fosse stato internet, elemento multimediale del corso, sarebbe stata identica cosa il farlo attraverso lo scambio epistolare. L'unica differenza sarebbe stato il tempo richiesto per lo svolgimento del lavoro, decisamente maggiore. Le discussioni dal vivo, faccia a faccia, che invece si avevano una volta la settimana, ebbero una partecipazione decisamente maggiore da parte di noi studenti, grazie anche alle domande poste dai Professori. Lì, il loro carisma, si manifestava in tutta la sua prepotenza, era palpabile: erano presenti nella stanza dove si dibatteva, quindi non ci si poteva mostrare disinteressati di fronte, fisicamente, a loro.
Abbiamo visto, nel secondo paragrafo, che prima dell'attuale moda dei tablet i così detti esperti hanno cercato di “vendere” per innovazioni didattiche altre novità informatiche, come ad esempio il già citato Second Life. Il tutto, fortunatamente, si è risolto in una bolla di sapone, e tale fine era del tutto preventivabile … tranne da chi di Internet vede solo la facciata, non vivendolo da dentro.
Oggi, quindi, ci ritroviamo con una nuova mania, quella di dover dotare tutte le scuole Secondarie di Primo e di Secondo Grado di questi padelloni tanto cari agli adulti, i tablet. In un certo qual modo si è tornati ad una situazione pre-Montessori/Bruner. Se Maria Montessori e Jerome Bruner hanno creato una scuola a misura di bambino e ragazzo, attualmente si sta tornando ad una scuola a misura di adulto … ma sempre per bambini e ragazzi! Non è detto, infatti, che se gli adulti trovano utile il Tablet, questo debba essere utile anche per gli studenti delle scuole Medie e Superiori. In Germania si sta assistendo ad un infuocato dibattito in proposito, e non mancano opinioni decisamente roventi, come quelle dello psichiatra e psicologo Manfred Spitzer, il quale nel proprio libro, ormai un best seller, "Digital Dementia”, afferma che l'utilizzo invasivo di strumenti digitali ha l'effetto opposto a quello che si pensa, in quanto rincretinisce gli studenti: “When drivers depend exclusively on their navigation technology, they do not develop the ability to orient themselves, although of course the brain offers them the possibility of learning how to do so. The same applies to children who use electronic styluses on a SMART board instead of learning how to write -- the brain is kept in check. And because computers take over many classrooms and other functions that are actually good practice for kids, "it inevitably has a negative effect on learning," Spitzer argues” (Fonte). Se Spitzer è forse fin troppo diretto, è comunque quello che sto osservando anche io nella vita quotidiana. I bambini che sfruttano molto Tablet e Smartphone tendono ad essere chiusi, a parlare poco e a vedere ridotte le proprie capacità motorie e spaziali (lo osservo di persona quando pratico Karate con bambini tra i 5 ei 10 anni: i più "svegli" dal punto di vista motorio e spaziale sono quelli che utilizzano meno i terminali mobile).
Quello che adesso mi preme sottolineare è che, nonostante vi sia una notevole premura nel dotare le scuole di Tablet, non è stata posta altrettanta attenzione nello studiare i pro e i contro di tale sistema educativo. Gli studi sono molto recenti, spesso non coprono più di un paio di anni, e si vede l'utilizzo principalmente di iPad. Inoltre sono tutti studi molto simili e superficiali. Raramente se ne incontrano di almeno passabili. Ottimo, al contrario, seppure sempre limitato temporalmente, è questo studio (marzo 2013), realizzato nella solita Germania, e che pone in rilievo due dei dubbi fondamentali che ci siamo posti anche noi negli articoli precedenti, cioè le limitate funzioni creative del tablet, e la loro scarsa ergonomia nel creare i contenuti multimediali. Gli utilizzatori dei Galaxy Tab, i tablet utilizzati per questa ricerca, hanno constatato che l'assenza di una tastiera fisica limita notevolmente l'utilizzo del Tablet, così come l'assenza di molti programmi oggi essenziali (suite Office su tutti): “They lack a physical keyboard for text input and the simplicity of the operating system may, at the same time, restrict the breadth of possible uses”, e “For a short mail, the keyboard is fine, but for longer texts, writing on it is a pain”.
I vantaggi nell'utilizzare i Tablet sono essenzialmente due:
- la possibilità di consultare con più facilità un testo (funzioni cerca, segnalibro, ecc): “The search function is something that I always missed in regular books when studying for exams, as the glossary is often not complete”;
- il non dover stampare centinaia di fogli per tutta la classe: “I always feel bad when I need to print out hundreds of pages for a single class. With the tablet, this isn’t nece s sary anymore and I bet this saves tons of paper a year”.
Sul blog Marketing, media & childhood vi è un interessante post proprio su questi temi, e due quesiti tra i tanti posti dall'autore, Erin, trovo siano fondamentali ed in linea con quanto abbiamo visto:
- An important part of media literacy education is learning to produce media – positive media. But tablet computers are best for consuming media, while desktops or laptops are best for producing media. How will the production part be taught? Would it make more sense to spend the technology funds on equipment that allows students to use it more actively and creatively, rather than equipment that allows mostly passive use?
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Corporations are willing to spend billions to get exclusive access to children through schools, where they are captive audience, get the implicit endorsement of the schools, and can sometimes groom customers for life. Apple is a pioneer in marketing in schools and is heavily marketing the 1:1 ipad concept. By requiring Apple products, the school is essentially endorsing this huge corporation’s product. Is that appropriate? How does that benefit Apple to the detriment of the students? There is an anonymous donor. Is the anonymous donor actually Apple? Even if Apple is not the donor, were you influenced by Apple’s marketing to choose the iPad? According to the National Education Policy Center at the University of Colorado: “Overall, marketing activities in schools actively threaten high-quality education by causing psychological, healthrelated, and academic harm to students. Commercial activities offer children experiences primarily intended to serve the sponsors and not the children themselves; they are therefore inherently miseducative,” because they promote unreflective consumption rather than critical thinking and rational decision making.” Have you considered this potential harm? Why can’t I choose any tablet computer – the one that is in my opinion the best value?
Nello studio tedesco, chi ha utilizzato i Tablet ha trovato utili le stesse feature presenti nei ben più economici, ed adatti alla lettura prolungata, eBook Reader. Le funzionalità aggiuntive dei Tablet sono quasi del tutto nullificate dalla mancanza del software adatto e di una tastiera fisica (Samsung propone una dock dotata di tastiera che potrebbe annullare questo svantaggio: ma perché allora non dotarsi di un Ultrabook con schermo touch? Di questo parleremo nelle conclusioni). Cosa si inventano quelli Samsung per aumentare l'hype attorno a questi tablet? La condivisione del desktop! (E l'hanno anche brevettata ...) Funzione già disponibile su tutti i PC da decenni, grazie all'utilizzo del programma gratuito VNC ad esempio. Ma soprattutto, ne esiste anche la versione analogica, da più di 2000 anni: "Ragazzi, andate a pagina 216, e scrivete questa nota a bordo del paragrafo due".
Proprio sui brevetti ha posto particolare enfasi Carlo Barlocco, Senior Vice President Samsung Electronics Italia, durante la presentazione della Smart School, affermando che l'azienda coreana è una delle aziende più attive nella ricerca al mondo, al secondo posto dal 2006 nella classifica per numero di brevetti depositati ogni anno. A mio parere i numeri contano ben poco. E' importante, al contrario, la qualità di questi brevetti. Mi sono preso allora 5 minuti per controllare quali brevetti siano stati depositati da Samsung recentemente, e le sorprese non sono mancate (Fonte United States Patent and Trademark Office):
- ho trovato 11 brevetti di design (lavatrici, smartphone, televisori, tablet, macchine per le radiografie, ecc) nel solo 2013: D682,817, D682,819, D682,821, 8,454,103, D683,506, D683,456, D683,351, D683,349, D683,346, D683,345, D683,339
- nel solo 2011 Samsung ha registrato 328 brevetti sul Design, su 4968 totali.
"Stranamente" IBM, prima azienda al mondo per brevetti depositati, è assente da questa classifica. Chi produce quindi vera innovazione?
Altri brevetti ancora, molti dei quali ridicoli, aspettano di essere letti, se avrete la pazienza di cercare. Sarà forse questa la vera innovazione a cui si riferiva Barlocco?
Nonostante i tablet siano una moda recente, e non vi siano studi almeno sufficienti per capire se siano utili o meno alla didattica, si sta comunque pensando di utilizzarli in massa nelle scuole. Vi è un media, invece, che è stato studiato da più di 20 anni nell'utilizzo scolastico-didattico, il cui studio continua ancora oggi, e di cui sono ormai chiari pregi e difetti. Sarebbe possibile integrarlo nei programmi scolastici e nella didattica senza grosse rivoluzioni, e non servirebbe comprare hardware nuovo o aggiuntivo, se non in casi eccezionali. Sarebbe un investimento decisamente abbordabile economicamente. Di quale media sto parlando? Del Videogioco.
Studi sui videogiochi possono essere letti sui seguenti siti:
Non mancano inoltre numerosissimi autori che si sono dedicati all'argomento, tra cui Matteo Bittanti, conosciuto dai videogiocatori di vecchia data per aver collaborato con la rivista Giochi per il Mio Computer, ora docente presso il California College of the Arts.
Precedentemente si è detto che i videogiochi potrebbero essere utili ad un utilizzo didattico, ma non abbiamo ancora spiegato come.
Un primo spunto ce lo da il PEGI sul suo stesso sito.
I videogiochi possono essere usati per migliorare le abilità motorie e spaziali di precisione nei bambini più piccoli e possono risultare benefici per i bambini affetti da disabilità fisiche.
“Sono state effettuate ricerche su quali abilità apprendono i bambini giocando. Queste ricerche si incentrano su abilità quali attenzione visiva, tempo di reazione, sviluppo di capacità cognitive quali la percezione spaziale o il pensiero strategico, la pianificazione e l’analisi delle ipotesi (Durkin e Barber, 2002). I giocatori devono elaborare rapidamente le informazioni e pensare in fretta per riuscire, il che potrebbe determinare vantaggi nella vita reale (Taylor, 2006). Vi sono prove nelle popolazioni adulte che le abilità di percezione visiva vengano migliorate dall’uso prolungato di videogiochi d’azione (Green e Bavelier, 2003, 2006). I videogiochi potrebbero essere usati nei bambini per migliorare la flessibilità (capacità di passare da un compito a un altro) e l’inibizione comportamentale (capacità di impedire a sé stessi di fare qualcosa di inappropriato). Ciò avrebbe un effetto significativo sulla loro capacità di regolare i propri pensieri e il proprio comportamento, che è una delle sfide caratteristiche dello sviluppo infantile e potrebbe avere un effetto molto benefico sui bambini. Vi sono altri possibili vantaggi dei videogiochi in quanto essi offrono la possibilità di aprire l'immaginazione ed esplorare altri mondi, superare paure e sviluppare un senso di identità (Jones, 2002). Vi sono molti possibili settori in cui i giochi potrebbero esercitare un notevole effetto positivo sulla salute mentale e fisica dei bambini e sulla loro educazione” (Byron Dott.ssa Tania, Safer Children in a digital world, The report of the Byron Review – Children and New Technology, 2008, pagg. 154-156).
Analizzando approfonditamente uno ad uno i punti citati dalla Dott.ssa Byron si possono comprendere pienamente i vantaggi derivanti da un insegnamento coadiuvato da strumenti videoludici.
Partiamo dalla prima affermazione: “Sono state effettuate ricerche su quali abilità apprendono i bambini giocando. Queste ricerche si incentrano su abilità quali attenzione visiva, tempo di reazione, sviluppo di capacità cognitive quali la percezione spaziale o il pensiero strategico, la pianificazione e l’analisi delle ipotesi”.
Di queste abilità, se il lettore avrà fatto caso, abbiamo parlato nei primi due capitoli più che abbondantemente, e per questo, qui, ne farò solo un breve riassunto.
L'attenzione visiva e il tempo di reazione è fondamentale nei videogiochi, soprattutto negli sparatutto in prima persona, ove l'abilità del giocatore risiede nell'eliminare il più velocemente possibile l'avversario subendo una quantità nulla o ridotta di danni, tenendo sotto controllo un ampio campo visivo. Queste caratteristiche possono rivelarsi molto utili in ambiti di ricerca, ad esempio nella ricerca medica, con l'utilizzo di strumenti quali microscopi, osservando nella loro interezza reazioni biologiche o chimiche, annotandole e notandole subitamente. Lo sviluppo delle percezioni spaziali possono rivelarsi utili, non solo nella vita di tutti i giorni, ma anche in campo educativo o lavorativo. In una partita di calcio, facendo i lanci lunghi, oppure nella costruzione di un palazzo, o ancora nell'attraversare una strada con auto in avvicinamento.
Il pensiero strategico, l'analisi delle ipotesi e la pianificazione, grazie agli strategici, ma anche agli sparatutto tattici in prima persona, può rendere la persona più decisa e sicura nel prendere decisioni, più rapida nel crearsi occasioni. Questo allenamento, che hanno reso gli Scacchi tanto rinomati, i videogiochi possono farlo decisamente meglio.
“I giocatori devono elaborare rapidamente le informazioni e pensare in fretta per riuscire, il che potrebbe determinare vantaggi nella vita reale”, e non c'è nulla di più vero. Attenzione però a non cadere nella trappola di pensare che i videogiochi siano la manna caduta dal cielo perché, come per ogni cosa, esistono delle controindicazioni. All'azione dei videogiochi deve corrispondere un'azione nella vita reale. Un bambino non può solo studiare sui libri, così come non può solamente videogiocare. La vita sociale è il luogo fondamentale dell'educazione di un bambino o adolescente. La Dott.ssa Byron, nel suo rapporto Children and New Technology (2008), ci informa anche dei rischi che un uso eccessivo di questi nuovi supporti può provocare:
- i genitori tendono a proteggere i loro figli dal mondo esterno, facendoli videogiocare perché considerato meno pericoloso. Questo può portare a non conoscere realmente i fattori di rischio esterni da parte del bambino, una volta cresciuto;
- i bambini devono assumersi la responsabilità delle proprie azioni, anche se queste possono essere rischiose, affinché si completi il processo di pieno sviluppo del potenziale personale;
- inoltre, il voler proteggere i bambini dai pericoli esterni (possibilità di cadute, rotture, ferite, ecc.) potrebbe loro aprire le porte di nuovi problemi, quale la pedofilia online, ad esempio.
A tal proposito è necessario che anche gli adulti, soprattutto se genitori, si interessino del mondo dei videogame, non solo per proteggere i propri figli e conoscere quello che questi amano, ma anche perché potrebbero trarne giovamento, come è scritto nel passaggio “Vi sono prove nelle popolazioni adulte che le abilità di percezione visiva vengano migliorate dall’uso prolungato di videogiochi d’azione”.
Per videogiochi d'azione si intendono principalmente sparatutto in prima persona ed action 3D, giochi che dubito possano piacere a chi non ha mai videogiocato. Vi sono però altri giochi che ultimamente, almeno dall'uscita della console portatile Nintendo DS, hanno raggiunto un notevole grado di popolarità presso i casual gamers o, detto in italiano, coloro che giocano saltuariamente e/o non hanno mai toccato prima un videogame nell'arco della loro vita.
A tal proposito va citato un best seller del genere, Dr. Kawashima's Brain Training, meglio conosciuto semplicemente come Brain Training. Questo videogioco uscì per Nintendo DS nel maggio 2005 (2006 in Europa) e fu sviluppato sotto la supervisione del Dott. Ryuta Kawashima, considerato in Giappone il maggior ricercatore ed esperto del cervello umano.
Il gioco non ha una trama ma è composto da una serie molto numerosa di sottogiochi di tipo aritmetico, mnemonico e logico. Esempi di esercizi sono il calcolo del 20 (una serie di 20 operazioni da eseguire nel minor tempo possibile) o la memoria lampo (ci sono una serie di caselle con dei numeri dentro, che il giocatore vede per un secondo. Il giocatore dovrà poi premere queste caselle nell'ordine numerico crescente). Il gioco ha venduto così tanto che poco dopo (dicembre 2005 in Giappone, 2007 in Europa) uscì il seguito More Brain Training from Dr. Kawashima: How Old Is Your Brain?, che aggiunse una simpatica funzione. Salvando il proprio profilo si può, di giorno in giorno, vedere se la propria reattività nel risolvere gli enigmi migliora o meno. Ad ogni risultato corrisponde poi l'età teorica cerebrale.
Questi due videogiochi hanno venduto più di 17 milioni di copie e sono giocati da persone che mai, almeno personalmente, avrei mai detto potessero un giorno videogiocare. Come i vari Brain Training vi sono poi altri videogiochi che hanno fatto avvicinare un pubblico sempre più vasto al settore. Ad esempio i videogiochi della serie del Prof. Layton, un'avventura grafica a base di enigmi logici, o i giochi per Nintendo Wii, come Wii Sports e Wii Fitness.
“Vi sono molti possibili settori in cui i giochi potrebbero esercitare un notevole effetto positivo sulla salute mentale e fisica dei bambini e sulla loro educazione” scrive la Dott.ssa Byron, ma anche degli adulti. Riuscire a far comprendere agli adulti che i videogiochi possono essere una fonte incredibile di possibilità per i bambini, e i giovani in generale, è fondamentale.
“I videogiochi potrebbero essere usati nei bambini per migliorare la flessibilità (capacità di passare da un compito a un altro) e l’inibizione comportamentale (capacità di impedire a sé stessi di fare qualcosa di inappropriato). Ciò avrebbe un effetto significativo sulla loro capacità di regolare i propri pensieri e il proprio comportamento, che è una delle sfide caratteristiche dello sviluppo infantile e potrebbe avere un effetto molto benefico sui bambini. Vi sono altri possibili vantaggi dei videogiochi in quanto essi offrono la possibilità di aprire l'immaginazione ed esplorare altri mondi, superare paure e sviluppare un senso di identità” scrive Jones, e dice il vero. I videogiochi possono creare quei mondi, quelle opportunità che la vita reale non potrebbe offrire, ma anche far sì che gli adulti riescano a comprendere meglio il bambino, per correggerlo.
Il problema, però, è come fare per rendere operativi tutti questi proponimenti. I giochi possono essere utili nei più svariati campi, e per i bambini soprattutto. Viene in aiuto, per supportare questa affermazione, uno studio promosso dall'ISFE ed intitolato “How are digital games used in schools?”, effettuato tra la primavera del 2008 e la primavera del 2009 in alcune scuole primarie di otto paesi: Austria, Danimarca, Francia, Italia, Lituania, Olanda, Regno Unito e Spagna.
Nell'introduzione viene subito precisato che “the study extended over several months, without any preconceptions for, or against, the use of electronic games as teaching tools potentially usable in the classroom” e che “this was the first study covering several European countries, priority was given to collecting as much information as possible about the experiments now going on. For this reason, the term ‘electronic games’ had taken in a broad sense, covering video games and on-line games, games that run on consoles, computers, or mobile phones, whether they be adventure games, role plays, strategy games, simulations, racing games or puzzles”.
I programmi multimediali e i videogiochi sono stati scelti dagli stessi professori in base alle loro esigenze e caratteristiche. Nessun software è stato imposto loro. Indipendentemente dal software scelto gli alunni hanno reagito più che positivamente alla novità: “All the examples reported and the great majority of the teachers surveyed confirm that pupil motivation is significantly greater when computer games are integrated into the educational process. The pupils seem to appreciate the fact that this approach takes account of their everyday reality. They like the fact that it gives a concrete purpose to the work they are asked to do (for example, learn about a period of history so as to create a game scenario) and that it enables them to be active in their learning (as players)”.
Non solo i bambini erano maggiormente presi dallo studio, tanto da interessarsi in maniera approfondita di un particolare periodo storico e di giocare alcuni scenari di un videogame su quest'ultimo, ma questa esperienza aumentò grandemente la loro conoscenza diretta dell'evento studiato, tanto da ampliare notevolmente la loro produzione di materiale, sia a scuola, sia a casa: “During and/or after the use of a game, the pupils show real enthusiasm for writing texts, diaries, or editorial content for a website, or for making drawings and/or photographs, etc”.
Questo studio ha aiutato anche gli insegnanti a conoscere maggiormente il mondo videoludico. Si formò un forum online dove gli insegnanti potevano scambiarsi opinioni, suggerimenti e consigli. Anche i genitori, grazie a questa esperienza, sono cresciuti. Inizialmente scettici, perché associavano i videogiochi ad un divertimento violento e improduttivo, si sono ricreduti celermente.
Interessante, ad esempio, l'utilizzo del gioco The Sims 2 da parte della scuola di Højby (Primary and Lower Secondary level) in Danimarca. The Sims 2 rende possibile il creare un nucleo familiare e decidere la vita dei membri di questo nucleo. Che lavoro devono fare, con chi si devono sposare e fidanzare, come devono arredare la casa, quali sono i loro hobby, ecc. I bambini della scuola, creato il proprio nucleo familiare, dovevano descrivere il proprio personaggio preferito, caratterizzarlo e alla fine scrivere il romanzo/copione della sua vita. Questo ha fatto sì che i bambini imparassero a utilizzare in maniera più creativa il proprio linguaggio, a migliorare la prosa e a sfruttare al massimo la propria immaginazione per un lavoro scolastico.
Altro interessante esempio quello della scuola media Zell am See di Pinzgau (Salisburgo), dove i 25 alunni della classe 2b hanno utilizzato il videogioco Zoo Tycoon 2. Il gioco è stato utilizzato in lingua inglese, e questo ha permesso agli alunni di ampliare la propria conoscenza della lingua, spinti dal desiderio di imparare a giocarlo al meglio. Inoltre, poiché Zoo Tycoon 2 è un videogioco manageriale, i ragazzi hanno migliorato le proprie conoscenze economiche ed hanno compreso, seppure non approfonditamente, le meccaniche manageriali che si celano dietro una grande attività, in questo caso uno Zoo.
A parte questi esempi, il più grande successo di questa iniziativa ha riguardato gli insegnanti: “Whether or not they use digital games in their teaching, the teachers surveyed expressed a real interest in the potential: 80% want to know more. Almost the same percentage of teachers already using games say they are interested in making greater use of them. Some 50% of the teachers who have not yet used them say they would be interested in testing them”.
Gli insegnanti, infatti, nella maggior parte, hanno avuto notevoli apprezzamenti riguardo i videogiochi, non solo perché aumentano la motivazione nei ragazzi allo studio, cosa non da poco, ma anche perché, effettivamente, aiutano gli stessi insegnanti nel far comprendere meglio agli alunni i concetti espressi. Attraverso la loro natura ludica, i videogiochi, potenziano in maniera incredibile l'effetto della parola dell'insegnante.
E' il caso di citare, come ultimo esempio, l'utilizzo del videogioco di strategia Patrician III (2003) sempre presso la scuola danese di Højby. Gli alunni della sesta classe (12-13 anni) hanno utilizzato Patrician III per realizzare un programma didattico maggiormente multidisciplinare (Conoscenza storica, realizzazione di presentazione in PowerPoint e esposizione in lingua madre), con l'introduzione dell'elemento storico: “Players play the role of a merchant in the Middle Ages. Twenty-five copies of Patrician III were given to the school by Multimedieforeningen and Atari. The aim was to help pupils to broaden their knowledge of the Middle Ages, and to understand the kind of living conditions and power relationships which prevailed during this period. Pupils were also required to make a PowerPoint presentation (IT) and use this as a basis for a verbal presentation”. Patrician III, essendo ambientato durante il 1300 nelle città della Lega Anseatica, si prestava benissimo per un utilizzo didattico in un paese scandinavo.
Giocare, però, non è semplice, soprattutto se si vuole vincere e si vuole fare una bella partita. Giocare ai videogiochi a sfondo storico, in particolare, richiede una discreta conoscenza della storia per rendere meno difficoltosa la vittoria; non è raro, per esempio, sentire parlare giocatori di Civilization che hanno fatto piccole ricerche storiche sulle popolazioni presenti nel gioco per conoscerne i punti deboli e sfruttarli. Allo stesso modo gli studenti danesi, mentre giocavano, hanno consultato i testi scolastici e chiesto spiegazioni più dettagliate ai professori: “Given that the game’s cultural basis is the Middle Ages, the class worked with books which explain the background to this, whilst the teacher also gave verbal explanations”. Tramite questa esperienza, divertente ma anche proficua, gli studenti hanno ampliato le proprie conoscenze e skills (capacità) in vari settori: “The aim in incorporating computer games into the course was to help pupils to broaden their knowledge of the Middle Ages generally, and to understand the kind of living conditions and power relationships which prevailed during this period (History). At the same time, pupils were required to make a PowerPoint presentation (IT) and to use this as a basis for a verbal presentation (Danish)”.
Con l'utilizzo di un semplice videogioco strategico (tra l'altro datato e non tra i più entusiasmanti da giocare) si è riusciti a coinvolgere in maniera quasi totale degli studenti di 12/13 anni, tanto da realizzare una serie di lavori (creazione di una presentazione in PowerPoint ed esposizione orale dell'esperienza) che sarebbe stato difficoltoso portare a termine in maniera altrettanto proficua con il metodo didattico tradizionale.
Non mancano però incertezze per poter applicare questo metodo di studio su più larga scala. Prima di tutto, i possibili costi. Si dovrebbero attrezzare le scuole con una notevole quantità di computer, ma la maggior parte delle scuole sono già a buon punto. Riguardo le licenze dei Videogiochi non si dovrebbe sborsare più di tanto, moltissimi si trovano a meno di 5 euro a copia (Ed il gioco rimarrebbe all'alunno). L'arrivo di Steam su Linux potrebbe fare inoltre risparmiare anche sulle licenze Windows.
Altro problema riguarda il corpo insegnanti. Non tutti gli insegnanti hanno le conoscenze base per utilizzare un computer, figuriamoci per videogiocare. Servirebbe, quindi, un vigoroso corso d'aggiornamento per migliaia di insegnanti, e questo comporterebbe un costo non indifferente. Si sta cercando, comunque, di arginare e aggirare questo problema pubblicando corpose guide per l'utilizzo dei videogiochi in ambito didattico. L'European Schoolnet, grazie alle esperienze fatte, ha pubblicato nel 2009 il manuale “Digital games in schools: A handbook for teachers”, il quale cerca di guidare gli insegnanti nell'utilizzo degli strumenti multimediali a scuola. Personalmente, resto comunque scettico su alcuni suggerimenti che vi sono presenti (e sono presenti in altri manuali), come ad esempio l'utilizzo del gioco World of Warcraft quale strumento adatto a sviluppare un lavoro in team, per un paio di motivi, principalmente: il gioco è una droga, nel vero senso del termine, sia monetariamente (richiede un abbonamento mensile) sia per assuefazione. In secondo luogo, vi sono altri giochi in cui la collaborazione è maggiormente necessaria e più stretta (Per far rendere al meglio in questo ambito WoW bisognerebbe creare ed organizzare una Gilda, compito non facile).
Continuando, il terzo problema si può dire sia l'intersezione di tre dubbi: la scelta dei giochi, la conoscenza da parte degli insegnanti del mercato videoludico e il contenuto dei videogiochi stessi.
Se l'insegnante non conosce i videogiochi, è difficile che possa scegliere con cognizione di causa quello che ad esso è più utile. Altrettanto vero è che se si fa consigliare il gioco e questo si rivela utile al suo insegnamento, può capitare che contenga materiale non adatto ai suoi alunni (sangue, scene cruente, ecc).
Per cercare di minimizzare questo problema, nel 2008, all'Eminent '08, è stato presentato il videogioco Frequency 1550 (realizzato in collaborazione con la Montessori comprehensive school di Amsterdam), un videogioco storico ambientato ad Amsterdam ad inizio '500, da utilizzare via cellulare/smartphone (in quanto gli alunni tendono ad usarlo più di un tradizionale PC), tramite la produzione e la condivisione di foto e l'uso di mappe interattive. Si è notato come gli studenti che hanno studiato utilizzando anche Frequency 1550 abbiano acquisito conoscenze migliori e più durature rispetto a chi ha studiato solo con il metodo tradizionale.
Il fatto, però, che non ci sia ancora un'idea precisa sulla collocazione che i videogiochi dovrebbero prendere in ambito didattico porta ad un'ultima incognita: la perplessità dei genitori verso questo metodo di insegnamento. Qualora questi ravvisassero anche solo la minima ombra, probabilmente non mancherebbe un'azione legale o una vigorosa protesta. Il videogioco, purtroppo, è ancora relegato, nella mente dei più, ad essere un oggetto di divertimento fine a se stesso, inutile per la vita pratica ed anzi corruttore dei propri deboli figli.
Alla luce dei sorprendenti e splendidi risultati raggiunti da questi recenti studi, a mio avviso, non dovrebbero esserci più remore per accogliere a braccia aperte l'utilizzo dei videogiochi nella realtà scolastica. Ultima grande barriera rimane il genitore, come già detto, e qui, per superarla, può venire in aiuto l'Università.
I giochi commerciali spesso non rispondono alle esigenze che l’insegnante può avere, e allo stesso tempo possono creare malumori presso i genitori, quindi perché non utilizzare quella grande fonte di cultura e ingegno che è l'Università per creare i supporti didattici, siano essi videogiochi o software d'intrattenimento, per far penetrare l'insegnamento informatico nella scuola? Con Frequency 1550 si è cercato di fare questo passo, ma i mezzi economici a disposizione sono ancora troppo limitati.
Come avrete sicuramente notato Tablet e Videogiochi offrono due esperienze didattiche diametralmente opposte. Il Videogioco spinge lo studente ad utlizzare le community per scambiarsi opinioni (anche attraverso lunghe ed articolare discussioni), ad utilizzare i programmi office o grafici per realizzare guide o presentazioni, e a trovare soluzioni ai problemi (di gioco o tecnici) incontrati. Il Tablet, al contrario, parte proprio da contenuti già pronti. Essendo uno strumento prettamente passivo, che non da possibilità di sviluppare contenuti multimediali complessi, il tablet si presta ottimamente per trovare i contenuti realizzati da altri, per poi usufruirne. Le App mobile raramente, proprio per la natura semplice ed immediata del terminale, possono essere complesse e produttive come quelle disponibili su PC (Windows o GNU/Linux non ha importanza). Al contrario le applicazioni per tablet spingono l'utente a realizzare messaggi (video o testuali) brevi e dai contenuti piatti. Fattore non meno importante, dei videogiochi ormai si conosce vita, morte e miracoli riguardo il loro possibile utilizzo. I produttori di videogiochi che hanno collaborato con la European Schoolnet non si sono certamente tirati indietro dal mostrare i punti deboli di un insegnamento attraverso i videogiochi. I produttori di tablet, al contrario, hanno mai palesato a genitori ed insegnanti le possibili difficoltà che si potrebbero incontrare?
I Tablet che Samsung cerca di vendere alle scuole, inoltre, potrebbero benissimo essere dei semplici eBook. Personalmente non vedo nessuna funzione didattica che valga l'acquisto di un tablet, figuriamoci di decine o centinaia. La creatività non si potenzia con un terminale prettamente passivo, la vera creatività si mostra con un terminale potente e aperto a qualsiasi possibilità (Word processor, fogli di calcolo, grafica 2D e 3D, montaggio video, ecc): il PC. Sfido chiunque a non bestemmiare in aramaico nella realizzazione di un semplice foglio calcolo o di un testo in word con un terminale touchscreen da 7 o 10 pollici.
Perché non proporre gli Ultrabook, a questo punto? Stanno scendendo vertiginosamente di prezzo, sono dotati di uno schermo touchscreen, offrono piena compatibilità a Windows 7/8 e GNU/Linux (e quindi a moltissimi software, anche professionali), sono leggerissimi, e molto più potenti di un tablet.
Il perché è molto semplice: offrono minori utili. In questo caso a Samsung. Samsung produce in proprio i tablet che vende, dal SoC allo schermo, dalla ram alle memorie NAND Flash. Il Sistema Operativo, Android, è gratuito, quindi non deve pagare nessuna royalties. Ha già un Sistema Operativo proprio (Tizen) sui nastri di partenza, che in futuro potrebbe sostituire Android, e su cui potrebbe fare altri utili attraverso il proprio Market. Perché dovrebbe appoggiare una soluzione con cui guadagnerebbe meno e dove non è leader? Non va dimenticato, comunque, che il mercato mobile è sempre più un Far West, ed anche Samsung sta cominciando ad avere i primi problemi. Aggiudicarsi la fornitura delle scuole, economicamente, sarebbe un bel colpaccio.
Microsoft, per una volta, aveva fatto la cosa giusta continuando a puntare su Windows 8 e i PC in ambito educativo, ma il grandioso successo (di vendite, e basta) degli iPad in ambito educativo l'ha costretta a doversi accodare alla moda.
Questi, alla fine, sono solo i pensieri di un semplice appassionato di informatica, che ha qualche esperienza in ambito educativo e che si è fatto una propria idea, del tutto indipendente, di questa storia. Spero che questo articolo possa aver stuzzicato la vostra curiosità, e che vi spinga ad informarvi sull'argomento, leggendo articoli e libri. Formatevi una vostra opinione, non seguite quella di nessuno, neppure la mia: la vera crescita inizia con uno scambio di opinioni senza preconcetti.
Anche personalità di rilievo, esimi studiosi, che spesso appoggiano una multinazionale o un'altra, prendono delle cantonate paurose. E’ il caso, ad esempio, di un articolo scritto da Umberto Eco su L’Espresso, e pubblicato anche sul sito internet della rivista il 19 febbraio del 2010. Nell’articolo, scritto per la rubrica Quinto Potere, si fa presente come cercando con un motore di ricerca la parola Gesù ci si imbatta in 4.830.00 siti, mentre se si cerca la parola porno se ne trovino ben 130.000.000 milioni. Al che, il Prof. Eco scrive: “Pensando che porno fosse troppo generico rispetto a Gesù, ho deciso di paragonare porno a religione: religione dà poco più di nove milioni di siti, certamente più del doppio di Gesù, il che mi pare politicamente corretto, ma pochissimo rispetto a porno”.
Il Prof. Eco, però, seppure stimatissimo semiotico, non ha pensato che Internet è uno strumento, o luogo, dove si parla prettamente inglese, e che la parola “porno” è molto simile a “porn”. I motori di ricerca, senza stare a complicare il discorso ed utilizzare termini sconosciuti ai più, tendono ad associare parole molto simili, soprattutto se quella cercata compone altre parole di segno praticamente uguale, con un significante simile. E’ il caso di porno e porn: sono segni praticamente uguali. Anche Religione e Religion sono simili, si chiederanno alcuni: è dunque vero che i siti che trattano di porno sono più di quelli che trattano di religione? No, perché quando si crea un sito si può dare a ciascuna pagina anche delle parole chiave (Meta Tag), parole chiave che verranno utilizzate dai motori di ricerca per mostrare i risultati all’utente (e questo è il metodo principale che utilizzano i motori di ricerca per indicizzare i siti). Religion è spesso giudicata troppo neutra da chi realizza tali siti, e quindi scartata. I Webmaster che realizzano siti Porno, al contrario, sono molto attenti ad inserire le Meta Tag in più lingue, così da avere un numero maggiore di visitatori. Cosa che non accade cercando Gesù, perché Jesus è un segno decisamente diverso e perché i webmaster di questi siti non hanno ragione ad inserire un Meta tag in altre lingue. Lo stesso discorso riguardo i Meta Tag vale anche per Religion.
Appurato ciò, e rifacendo la ricerca con Google, si scopre questo:
- Porn: 365.000.000 siti
- Jesus: 658.000.000 siti
- Religion: 494.000.000 siti
Le conclusioni che il Prof. Eco trae nel suo articolo si rivelano quindi fallaci: “Ora la pornografia può fornire sfogo a chi per qualsiasi ragione non può fare sesso dal vivo, o suggerire a una coppia un poco stanca come ringalluzzire i propri rapporti (e in tal senso ha una funzione positiva), ma può eccitare la fantasia di persone represse spingendole poi a sfogare i loro istinti attraverso lo stupro, la molestia, la sopraffazione. […] Perché non pensare che questa martellante sollecitazione del desiderio non stia avendo un'azione anche sui responsabili della cosa pubblica, provocando una mutazione della specie, e cambiando le finalità stesse del loro agire sociale?”.
Il Prof. Eco, non conoscendo il mezzo, e non facendosi neppure le domande più scontate su di esso, giunge a conclusioni completamente inesatte, affermando che Internet è ricettacolo di vizi e malefatte. Molte persone, basandosi sulla autorevolezza di Eco avranno sicuramente preso per buone le sue affermazioni, senza farsi troppe domande. Allo stesso modo, molte persone, pensando che Internet e i terminali Mobile siano una manna dal cielo, credono che possano essere utilizzati per qualsiasi cosa.
Il mio suggerimento, quindi, è uno solo: informatevi personalmente, e fatevi una vostra opinione originale. Almeno questi esperti dovranno impegnarsi maggiormente per prenderci per il naso.
Ah, un'ultima cosa. Forse vi starete chiedendo cosa c'era dentro la pennina USB che mi è stata data. Tornato a casa l'ho collegata al PC e... non c'era nulla. Era formattata. E lo è ancora. Adesso la tengo in bacheca, come ricordo. Spero che i tablet che Samsung darà alle scuole italiane non siano come questa penna: vuoti.